Un catalogo semiserio dei conflitti umani è andato in scena ieri sera, nel cortile di una scuola primaria di Piccianello, tra i quartieri più popolosi di Matera. Al cortile si accede aggirando l’edificio, lasciandosi alle spalle l’ingresso principale: di là si guadagna uno spazio teatrale inventato dentro al quartiere, panche, luci e una quinta di finestre d’aula alle spalle della scena. “Fin che ci trema il cuore” è tra gli spettacoli ospiti di “Nessuno resti fuori”, festival di città teatro persone che dal 19 al 30 luglio abita le vie di Matera e si mischia alla città, al suo territorio e alla sua gente. “Fin che ci trema il cuore” viene fuori da un laboratorio che ha lavorato sulle caratteristiche di questo luogo e, a tutta ragione, ha risposto alla vocazione stessa del Festival: quella per cui ‘nessuno resti fuori’, appunto.
Prodotto da IAC in collaborazione con l’Università per l’Educazione Permanente e scritto e diretto da Andrea Santantonio, è uno spettacolo con una forte connotazione simbolica, il cui fluire della scena ha trovato nel commento musicale l’escamotage perfetto per instaurare la narrazione. In scena, un gruppo di attori di età avanzata, protagonisti del laboratorio prima e dello spettacolo poi, che hanno saputo trarre dai dialoghi e dal lavoro di regia la forza per costruire una presenza scenica estremamente credibile oltre che godibile. In alcuni passaggi forse eccessivamente astratti, in cui nulla sembrava poter favorire una comprensione della narrazione scenica, tale presenza ha agito da collettore, aderendo al pubblico con grande naturalezza.
I conflitti: la guerra, gli uomini e le donne, le famiglie, l’anima, essere vivi o meno. Lo spettacolo entra ed esce nella dinamica dello scontro elaborando immagini, movimenti scenici, parole taglienti o dolci, abiti e colori. Tra i colori, il bianco. I personaggi che abitano e si agitano sulla scena non possiedono caratteristiche chiare, ma sono agganciati gli uni agli altri a dividersi quello che in realtà è un lungo monologo comune alle generazioni. La guerra è un ricordo. Oppure un elogio funebre. O ancora una storia. C’è differenza? C’è differenza nello sguardo delle donne che camminano la scena indossando stivaletti e vanno così letteralmente in guerra contro gli uomini? C’è forse differenza nel braccio di ferro che oscilla tra l’abbraccio e la repulsione senza decidere? Se è vero che il conflitto è necessario alla creazione stessa, lo spettatore ha l’impressione che conservare repulsione e abbraccio nella stessa relazione sia non solo essenziale, ma consigliabile. E questo mantiene veridicità dai vecchi ai bambini alle ragazze agli uomini. Si assottiglia così il linguaggio all’interno di momenti-giocattolo: è l’ora di dire con filastrocche le cose più terribili. Forse è anche il momento di fare cose terribili. La sensazione che ne abbiamo noi è quella di certe favole sanguinarie dei fratelli Grimm, in cui non venivano risparmiati delitti e boschi terribili. Proprio quello della favola è probabilmente un background cui l’autore ha voluto rifarsi, accomunando attraverso il linguaggio due momenti sociali – l’infanzia e la vecchiaia- da sempre in simbiosi nell’immaginario collettivo. Nonni e bambini. Saggezza e ingenuità. La storia va dagli uni agli altri quasi senza passare per l’età adulta. Perché? Forse perché il conflitto si mette a fuoco nelle età estreme; nelle età di mezzo esso viene solo giustificato.
Un disegno luci essenziali, con pochi colori fondamentali e una scena abitata in tutta la sua ampiezza accompagnano il racconto senza distrarre dall’azione principale, che non ha – di fatto – frasi incidentali. I richiami al teatro delle ombre e ad alcuni elementi tipici della teatralità – le lettere, i teli bianchi a dividere la scena e a ridisegnarla – confortano forse lo spettatore nel bel mezzo di un empasse logico, dal momento che le scene non chiudono mai se’ stesse ma si affidano, in questo, ai movimenti della musica.
Il focus finale nomina la solitudine quale albero. ‘Il mio albero’, dice l’attore, presentandocelo. Che farà fiori nonostante le stagioni. E saranno fiori rossi, che al termine dello spettacolo sono gli attori a lanciare al pubblico stravolgendo un cliché. Una riconciliazione? Una ricucitura? Probabilmente. O probabilmente solo il frutto di una stagione.