Per arrivare al quartiere Piccianello, dai sassi, dove alloggio, mi perdo almeno un paio di volte. Cartina in mano. Piuttosto perché cammino col naso per aria, colto di sorpresa ogni due passi. Sorpreso dalla bellezza. Che non si coglie appieno e fa sragionare. Chiedo a qualcuno, fra i sassi, e pare non abbiano voglia di confidenze o colloquialità. M’indicano però parecchio gentilmente la strada da seguire, con molta minuzia. Ma mi perdo ancora…
Arrivo in tempo per lo spettacolo. Un lavoro scritto e diretto da Andrea Santantonio (con Nadia Casamassima le anime del festival) frutto del laboratorio condotto da Santantonio presso l’Università per l’educazione Permanente. “Fin che ci trema il cuore – catalogo semiserio dei conflitti umani” il titolo. Una dozzina di ultrasessantenni gli attori.
Lo spazio d’azione scenica, sta in mezzo alle facciate di un edificio d’architettura popolare, una scuola, fatta costruire probabilmente sul finire degli anni 60 e conservandone lo stile.
Mi dirà Andrea, non casuale la scelta dell’ubicazione. Intuibile, dalle presenze in platea. Più di 200 persone. I cui segni sui visi, e la fisionomia, raccontano le storie e le anime del quartiere. Dove oltre ad abitarci, non succede granché. A ridosso d’una città policromatica. Nella pietra…
Una signora accanto, una dolcissima nonnina, sostiene sarebbe stato suggestivo se si fosse recitato da sulle scale. Quelle che portano all’ingresso. Me lo dice con timore reverenziale. Con cui si parla agli sconosciuti, specie se forestieri.
Dal corridoio in platea qualcuno raggiunge la scena. Ha una divisa da militare, l’andatura fiera, una maschera a volto nudo, non nasconde l’impercettibile tremore, raggiunge il boccascena. La parola è di prosa asciutta e confidenziale. Racconta con dolce amarezza, una condizione comune, di vissuti a queste latitudini, di altrove somiglianti a questi luoghi rimasti abitati dall’anima di chi ci vive. Saggezza popolare. Forse per aderenza agli attori. Forse personale.
Non tarda a non rimanere solo. Lo raggiungono, giungendo dalla platea, i suoi compagni di “viaggio”. O d’avventura. O di trincea. Trattando di conflitto, lo spettacolo. Di guerra tra uomini a piccolo e grande contesto.
Sarebbe poco credibile e sciocco volere trovare virtù tecniche e recitative in allievi senior di laboratorio. E anche ruffiano descrivere le scene. E sarebbe una cecità non accorgersi dei mutamenti in corso d’opera figurando i quadri di questo catalogo semiserio, di cui si apprezza l’osare con determinati (non) attori la soluzione non di comodo, il teatro d’arte, e non il semplice servizio, i mutamenti in mimesi di attori e spettatori. La coscienza che assume il fenomeno sociale, riuscendo a strapparsi il pregiudizio dell’etichetta, come un riconoscimento comunitario. Che succeda per fatti culturali, per il teatro, da queste parti è quasi un miracolo. Un miracolo laico.
C’è una scena a ricrearmi particolarmente. Una figura collettiva e fisica, con tutti gli attori sul “palco”, da terzo teatro, in duelli spontanei, uno contro uno. Corpo a corpo. Una scherma a mani nude, di contatto. Un mare di palline da ping pong copre il suolo. Che inevitabilmente rimbalzano, procurando un suono, un sottofondo auditivo involuto. A suggerire il miraggio d’uno stupido gioco, a dire della guerra, un gioco serio, ma ridicolo.
In un quadro precedente, il corpo degli attori è annichilito da un lenzuolo bianco messo addosso a sepoltura, come un valzer immobile di fantasmi per dialettiche di e in memoria. Cinque degli attori in riga, seduti, e in dosso il bianco. Dell’inconsistenza, dell’assenza. Lo stesso lenzuolo adoperato per del teatro di figura, d’ombra, in letture di missive dal fronte… e l’ombra a indicare naturalmente il lutto.
Soluzioni coraggiose, e di fattura di mestiere. Quando il significato è agito e figurato per semiotica prettamente soddisfacente il linguaggio, il linguaggio teatrale, comprensibile, per approdo e non per immediato, a qualsiasi pubblico. A ognuno degli sguardi in scena.
Fiori. Fiori dal palco. Per uditori non ipocriti.