C’è una comunità che abita distese d’oro bruno, tra campi coltivati a grano e ulivi d’argento. Nell’assolato bagliore che invade le valli lucane, sorgono villaggi dalle architetture metafisiche, in cui lo scalpello dechirichiano pare immortalato dall’obiettivo di Ghirri.
Eppure no, i quartieri ricostruiti tutt’intorno alla città di Matera, dopo l’esodo dai Sassi, non sono esperimenti ingegneristici. Si tratta di spazi restituiti ai cittadini e alle cittadine che, a seguito della “cacciata”, hanno preso possesso di altri luoghi, divenuti d’appartenenza dopo il tempo richiesto per la ricostruzione.
E la ricostruzione non è solo quel titolo che sovente svetta sulle prime pagine dei giornali o sulle intestazioni di progetti tecnici che parlano di disattese promesse, seguite a distruttivi terremoti. La ricostruzione non è fatta solo di calce e mattoni. Ricostruire significa comporre e ricomporre un puzzle emotivo, personale e collettivo, fatto di punti di riferimento strappati, di relazioni interrotte, di spazi da ri-abitare.
Questo è ciò che è accaduto ai materani e alle materane, la cui struggente storia collettiva ha finito per essere inghiottita da Levi e Pasolini, dall’amore mancato di Pascoli per quell’”Affrica” a cui fu tanto ostile, dall’epifania di luxury resort che, arroccati sui sassi, imborghesiscono bianchi tufi crepati dal sole e dal tempo.
Il lento incedere che caratterizza il ritmo di quegli spazi che si innervano dietro le mura della città spinge ora sull’acceleratore, lasciando ai quartieri della periferia bucolica del materano il compito di far decantare la vita. Perseguendo il principio di lentezza – come ritorno a un tempo mitologico fatto d’ascolto e conoscenza, generosità e istinto – Andrea Santantonio e Nadia Casamassima, alla guida di IAC – Centro Arti integrate, si fanno portatori di un’esigenza: il bisogno di un territorio di essere animato da nuove riflessioni e attraversato da possibilità che non lascino fuori nessuno, nessuna.
“Minoranze”, così vengono definite tutte quelle fasce della comunità non appartenenti alla targettizzazione eurocentrista, bianca, maschilista e capitalista. Donne, bambini, adolescenti, disabili, migranti, tossicodipendenti, carcerati, al contempo vittime e carnefici agli occhi di chi, da finestre dorate, osserva il disagio senza tendere la mano. La stessa mano che nerboruta affondano Andrea e Nadia nelle pieghe della difficoltà altrui, trasformando il dolore in opportunità.
Teatro comunitario, per tutte e tutti, inclusivo, giusto, tenero, che sa abbracciare e cullare, dirigere e proteggere come ginocchia di madre cui appoggiarsi per non cadere. Ecco l’essenza del lavoro di IAC che, da 10 anni, in un ex frantoio liminale tra la città vecchia e quella nuova, si pone come avamposto di crescita sociale.
Il riverbero di tale azione è incarnato da Nessuno Resti Fuori – Festival di Teatro, città, persone, diramazione progettuale di IAC, che da 6 anni compie un viaggio itinerante tra i satelliti abitativi, costituitisi quartieri, che orbitano intorno a Matera. Attraverso un processo di consultazione pubblica, si è scelto di affidare l’edizione 2021 di Nessuno Resti Fuori al Borgo La Martella, piccolo centro abitato frutto dell’operare di un nutrito gruppo di architetti e intellettuali, capeggiati, nel celebre intervento urbanistico di metà ‘900, da Adriano Olivetti.
Nel mese di luglio, per 9 giorni, Nessuno Resti Fuori non ha invaso La Martella, non l’ha colonizzata. L’ha vissuta, esplorando nuove possibilità di utilizzo degli spazi, inimmaginate occasioni di condivisione, affidando la guida di questo sperimentale viaggio all’arte e alle persone.
Questo festival, prezioso perché onesto, necessario perché coraggioso, non è il frutto di una gemmazione ma di un incontro fecondo, basato sul recupero di sentimenti perduti.
La pretesa, unica e sola, è stata quella di facilitare l’accesso culturale, non ponendo a lato la qualità della proposta artistica, bensì arricchendola di una dimensione umana che si è fatta pierre de touche per saggiare l’inarrivabile sensibilità delle nuove generazioni. Sì, perché Nessuno Resti Fuori è aperto a tutti e a tutte ma rivolto specialmente ai giovani, divenuti simbolo, in questo tempo pandemico, di sacrificio e abnegazione.
Con gioia ed energica curiosità, questa generazione di pensatori istintivi, tacciati senza fondamento di superficialità e abuso tecnologico, ha animato con interessanti spunti creativi il festival. Animare, nel senso di dare vita, perché i ragazzi e le ragazze di Nessuno Resti Fuori, che si riconoscono sotto il nome di cittadini più che di volontari del festival, hanno costituito una direzione artistica partecipata che ha lavorato in maniera infaticabile.
All’organizzazione, questi giovani hanno affiancato l’attività laboratoriale condotta da Giorgio Degasperi, Alessandro Argnani per Teatro Delle Albe, Moder, Diana Anselmo e Giuseppe Comuniello per Al.Di.Qua Artists. Espressioni diverse di attivazione relazionale aventi il fine di tramutare la marginalizzazione in convivenza rispettosa.
Ancora nella scelta dei laboratori, Nessuno Resti Fuori dimostra la propria vocazione all’annientamento delle barriere e all’offerta di possibilità inattese: accanto all’altisonante nome del Teatro delle Albe, vanto del teatro nazionale, e a quello di Degasperi, regista di pluriennale esperienza, vengono proposti Comuniello e Anselmo artisti capofila della prima rete europea di tutela dei diritti di lavoratori e lavoratrici disabilitati dello spettacolo dal vivo. L’umiltà e la dedizione con cui questi artisti hanno saputo accogliere e coltivare le attese di adulti, bambini e ragazzi ha dato vita a esiti di assoluta grazia.
Sul palco, si sono avvicendati Ateliersi, Factory Compagnia, Claudio Morici, Alessandro Blasioli, Gommalacca Teatro, Compagnia Teatrale Petra, IAC-Centro Arti Integrate, Compagnia Teatrale L’Albero, in un’alternanza di momenti di riflessione dedicati a inclusività e territorio.
Ci si chiederà, al di là delle ormai note implicazioni che il teatro può avere in ambito sociale, in cosa risiede l’importanza dell’apporto teatrale da un punto di vista prettamente umano e relazionale, in esperienze come quella di Nessuno Resti Fuori Festival? Una risposta possibile è suggerita da Jerzy Grotowski: se, come dice il regista polacco, la civiltà moderna è caratterizzata da una sensazione di catastrofe, dal desiderio di nascondere le nostre motivazioni esistenziali, il teatro è in grado di proporre un doppio gioco di intelletto e istinto, pensiero ed emotività, presentando un’occasione d’integrazione, di rifiuto delle maschere.
Il teatro può avere delle implicazioni spirituali sull’uomo, non in senso religioso ma rituale, ponendo, sotto l’egida di un mito collettivo diversi linguaggi e diverse fedi, in un processo che non livella le differenze ma le esalta.
Risiede qui il valore inestimabile di Nessuno Resti Fuori, un festival che obbliga lo spettatore a valutare la propria responsabilità di essere sociale e morale; a vedersi come riflesso nello spettacolo e nell’altro, partecipando a un’introspezione collettiva.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.