Matera confina con la mia provincia di origine, Cosenza. Confini esclusivamente politici di un Sud accomunante. Di cui l’aspra bellezza morfologica traccia individuazioni identitarie. Ne dicono prima i paesaggi, degli abitanti dei luoghi. Per uno scambio profondo tra uomo e terra. Per un reciproco confluirsi vitale. Per derivazioni originarie. La terra che fa l’uomo e viceversa.
Queste riflessioni precedono il mio arrivo. Miste all’ansietà della “prestazione”. E all’abbandono salvifico alla pura visione. Al puro cogliere ciò che si lascia contemplare senza esigere spiegazioni.
Ma di spiegazioni dovrò darne ai partecipanti al mio laboratorio di critica… Che si aspettano da me qualcosa, qualcosa che non sia già sentito, che non sia retorico, che non sia comune, formale, impartito. Che possa essere utile. Che rimanga. Nelle mie intenzioni, ad emancipare lo sguardo dai confini…
M’interrogo spesso sul ruolo e le sembianze della critica. Sull’effettiva funzione e influenza in un contesto teatrale che invece si autodetermina e si nutre di meccanismi di ‘sistema’. Allora, come in scena gli elementi e il dinamismo di questi realizzano l’efficacia o la sterilità dell’allestimento, l’apparato critico sembra essersi ridotto a elemento di un ingranaggio automatico. Un arto di un corpo funzionale al corpo stesso, se ‘mosso’ in maniera prestabilita, ordinata, utilitaristica. Credo debba essere altro, l’esercizio critico. Fornire strumenti di comprensione a chi non ne possiede. Ma non è mia intenzione contribuire e partecipare al dibattito in questione. Non mi interessa.
M’interessa far sapere a qualcun altro, a chi ha voglia di ascoltarmi, cosa ne so del teatro e di chi lo fa. Senza presumere di discutere di verità soggettive e assolute, senza il volere impartire, senza il chiudere in direzioni finite qualcosa che per propria natura non lo è mai stato, non lo è, e non lo sarà mai.
Chiesi a un regista, molto noto, una volta, come spiegherebbe il suo teatro a chi non l’ha mai visto. Mi rispose: io lo faccio, chi vuole vederlo si porrà delle domande.
Come chi sta in scena, e ne assume una ragione esistenziale, una ragione d’essere, chi scrive comunica attraverso l’atto creativo. Come per un attore è casa, habitat, il palco, e forse l’unico possibile, l’unico in cui si è possibili, per chi scrive, la realtà di sé (e del circostante) e la rappresentazione di sé (e del circostante), avviene su pagine, elettroniche o meno che siano. Per segni codificati.
Mi porto dietro un libro di Franco Quadri, un paio di numeri di Hystrio, una raccolta di monologhi degli ultimi trent’anni di teatro. Non mi preparo niente. Prenderò dai partecipanti e restituirò facendomi attraversare. Scriveremo, insieme. Faremo. Non ciarleremo. Non esporrò nessuna teoria o concezione artistica o modus, metodo, sapienza. Non è utile. Se non a pose. Ecco, chi scrive di teatro dovrebbe ritornare a scrivere di teatro. Evitando di fare teatro scrivendo.
I ragazzi arrivano nella sede di IAC nel primo pomeriggio. Fuori, il bagliore acceca – una luce che si rifrange solo a Sud così nitidamente – spossa la calura, il silenzio delle case azzuffate l’un l’altra urla.
Non sono nuovo a situazioni simili. Ma ogni Sud, per quanto accomunato, serba forme e segni unici, indigeni, peculiari. Vedo Matera, i sassi, dalla mia stanza di B&B. Per ora la scopro così, per una visione che ammalia e mi lascia stupefatto, con l’odore dei vicoli e delle scalinate dappertutto che arriva a suggerire alla visione sfumature altre, che butta colpi di scalpello a ciò che allo spirito è dettato per immagine. L’immagine che fa immaginazione…
La scopro dalle presentazioni dei partecipanti al laboratorio, dall’eterogeneità, dal conflitto con sé che manifestano in semiotiche impercettibili, dal dissenso, dal far valere la propria territorialità.
E il primo resoconto personale, sta nell’avvertire l’eccezionalità di eventi simili – il Festival Nessuno Resti Fuori – in luoghi del genere. Desertificati, culturalmente e non, per intestine contrapposizioni civili appannaggio di un colonialismo politico e culturale omologante. Quell’omologazione di cui ne profetizzò Pasolini, a cementificare autonomie e sviluppo.
Allora lo sguardo sarà sulle scene e sugli scenari urbani. Perché il teatro è per la polis e la polis in teatro si guarda. Mutando in forme altre. Guardandosi come si vorrebbe essere e si è incapaci di farlo. Guardando il proprio destino di umani.