I festival teatrali possono essere tante cose, vetrine promozionali e occasioni di incontro, svago, proposte di (ri)attivazione delle coscienze individuali e promozione di un contro-riflusso politico. Ognuna di queste modalità, va da sé, ha la propria dignità e non ha il minimo senso proporre una categorizzazione normativa tra quale vocazione sia la più importante, necessaria o virtuosa. Santarcangelo che insiste sulla sperimentazione, Romaeuropa sull’internazionalizzazione della Capitale, Kilowatt sul coinvolgimento del territorio, Colpi di scena sulla possibilità del teatro ragazzi di avere una visibilità e una circuitazione nazionale, Scenario con la sua complessa operazione di riflessione sull’immaginario teatrale, Mittelfest sull’essere crocevia europeo: gli esempi possono essere tanti, ma le preferenze sono sempre personali e afferiscono per lo più all’esperienza individuale. Nonostante, anzi data la premessa, a meritare particolare attenzione, nonché sostegno per l’attivismo e la qualità della proposta, sono alcune realtà che spesso e per lo più lavorano all’ombra e ai margini dei riflettori nazionali, ma che instancabilmente riescono a portare avanti delle imponenti operazioni di natura estetica e/o sociale. Nessuno Resti Fuori, che abbiamo avuto modo conoscere nelle più calde giornate di fine giugno, è una di esse.
Si tratta di una rassegna ormai giunta all’ottava edizione, dunque matura e strutturata, ma che sconcerta per la lungimiranza e la consapevolezza della mission artistica di chi la organizza, lo IAC Centro Arti Integrate di Matera, al secolo Nadia Casamassima, Andrea Santantonio, Joseph Geoffriau, Sonia Polimeno e Barbara Scarciolla. Nessuno Resti Fuori rappresenta un autentico esperimento inteso a favorire lo scambio fra maestranze teatrali e soggettività sociali, una sorta di raduno che cova in sé un’ambiziosa e lucida proposta di «narrazione dei territori» attraverso le arti performative. Il Covid19 ne ha sconvolto la routine, ma non la volontà e gli ideali che, anzi, hanno trovato nella crisi pandemica la forza per rilanciarsi attraverso due progetti, quello della Chiamata alla città («a cui i cittadini potevano candidare il proprio quartiere ad ospitare l’edizione successiva del festival») e quello della Direzione artistica partecipata («ragazze e ragazzi che negli anni sono cresciuti con il festival»), entrambi sorti dall’«esigenza di raccontare la città e le sue trasformazioni, coinvolgendo attivamente i cittadini nell’ideazione e nella realizzazione del processo artistico». Proprio da quest’ultima esperienza e nell’ottica di un ideale passaggio di consegne dallo IAC, si è di recente costituita l’Associazione di promozione sociale Nessuno Resti Fuori, responsabile della formazione della Direzione artistica partecipata e di alcune scelte di programmazione.
“Distante” dal dibattito sui massimi sistemi portato avanti dalle grandi e piccole testate di settore, a volte provinciale e autocelebrativo quando non proprio scadente, Nessuno Resti Fuori – che fin dal titolo mostra di ignorare le mode del momento, come l’incomprensibile e cervellotica piega assunta dalla pur fondamentale querelle sul linguaggio – si trova in «una fase di cambiamento. Dopo 7 anni di attività nei quartieri, dopo aver vissuto in pieno il processo di Matera 2019», il festival deve far «fronte a nuove sfide […] fare in modo che i diversi quartieri di Matera trovino una vocazione culturale, che riescano a pensarsi parte di un sistema più complesso ed allargato che si chiama città». La narrazione che restituisce Matera come città poco attrattiva dal punto di vista artistico-culturale può apparire sorprendente, ma solo se non si conosce le specificità di un contesto urbano che l’immaginario massmediatico celebra come depositaria di un Patrimonio (Unesco) bastante a sé stesso in termini di bellezza e sviluppo, ovviamente quello dei Sassi e delle Chiese rupestri. La verità, al di là della patina – o della coltre – che ammanta le vie della città vecchia, un vero e proprio salotto “arredato” con gusto e stile per chi lo vive da turista, ma freddo e povero per chi lo “tesse” quotidianamente, è ben altra e non ha nulla di complicato da capire. Infatti, lo IAC non ha in mente alcun volo pindarico e non è un afflato egoico a muoverne le ambizioni, ma solo l’interesse per un luogo che ha necessità di attivarsi in «percorsi e processi di miglioramento e cambiamento in ogni quartiere, coinvolgendo le persone interessate» perché, banalmente (ed è solo un esempio), la città non ha un teatro o spazi espressivi/formativi a disposizione ed è “distante” dalle vie di comunicazione su terra, aria e rotaria. Gli unici momenti di “artivismo” (nel senso di attività artistiche promosse dal basso e non dalla Fondazione di turno) sono i laboratori, le performance e gli spettacoli promossi dagli organizzatori del festival, dove «le persone vengono invitate a ritrovarsi nelle piazze, nei cortili, nei parchi, per condividere argomenti, questioni, tematiche e ragionare sui bisogni».
Matera è dunque una città che dall’esterno tutti ammirano e che lascia sgomenti, ma che all’interno non sembra avere le capacità istituzionali in grado di organizzare una politica culturale, a partire dall’Università della Basilicata che, fagocitata dagli immancabili localismi, ospita pochi corsi e sostanzialmente – al di là di qualche sporadico convegno – nulla di strutturale dal punto di vista extracurricolare, pur avendo un enorme potenziale a disposizione sia in termini di (eccellenti) risorse umane, sia di infrastrutture. Lo “scambio” fra teatro e contesto locale promosso da Nessuno Resti Fuori non si accontenta dei risultati raggiunti, che ormai paiono stabilizzati, e di una partecipazione numerosa sia in termini di pubblico, sia di iscritti ai laboratori. Gli obiettivi sociali e gli intenti culturali sono ben più nobili e ideali senza però essere astratti e, non a caso, la loro “necessità” non afferisce al rinnovamento delle pratiche estetiche (che invece tante realtà festivaliere impongono come prioritario rispetto alle conseguenze materiali), ma alle esigenze strutturali della società materana.
Nessuno Resti Fuori fa dunque opera di audience development e community engagement, ma questi termini, oggi tanto in voga, pur in fase calante, non vengono assunti nei senso della disquisizione esterofila o della dissertazione accademica. Il valore e la funzione dell’arte – nell’ottica in cui IAC la propone – va valutata in relazione alla presenza responsabile e/o responsabilizzata della cittadinanza e si realizza attraverso il coinvolgimento diretto, la formazione professionale o amatoriale e la partecipazione e mediazione spettacolare. In tal senso, i workshop e una politica straordinariamente accessibile agli eventi e ai momenti partecipativi (la Chiamata e la Direzione lo dimostrano) costituiscono un momento qualificante per Nessuno Resti Fuori proprio per evitare l’involuzione in una logica mercificante e narcisista. A ulteriore testimonianza della serietà con cui viene portata avanti l’esplorazione del territorio affinché i processi possano sedimentare nelle coscienze dei suoi abitanti e, si spera, giungere a chi di dovere, il festival “si” dedica per il secondo anno consecutivo al quartiere Lanera, contesto particolarmente significativo per comprendere le trasformazioni di una città che negli anni ’50, in seguito al trasferimento dalla parte vecchia a quella nuova, è stata oggetto di interventi urbanistici che hanno visto il contributo dei migliori progettisti e architetti italiani come Marcello Fabbri.
Dei giorni in cui siamo stati presenti, la sfortuna – sotto vesti del Covid19 – ci ha privati di uno spettacolo da “cartellone”, il P.O.P. Piccola Orchestra Pasolini di Teatro Nucleo, ma ci ha lasciato in programmazione il Pollicino di Teatro Le Forche, il Gilgamesh inscenato da un gruppo di giovani locali per Extrafestival, il Bozzoli di e con Silvia Torri e Rita Giacobazzi (premio Risonanze Network 2021) e la Passeggiata di quartiere che ormai costituisce un rito irrinunciabile per il festival.
Andato in scena all’Anfiteatro, Pollicino è uno spettacolo per bambini che rivisita la fiaba di Perrault per proporre «una meravigliosa storia che facilita il superamento delle paure e che determina una iniezione di forza e fiducia in sé e nel futuro della propria vita». Gli stratagemmi utilizzati sono quelli canonici del teatro per ragazzi. Una forte caratterizzazione del personaggi, l’incedere scanzonato e grottesco della narrazione, l’abbondanza simbolica (i personaggi familiari e i «personaggi fantastici […] come fossero l’altra faccia della famiglia») e l’intenzione moralistica («le paure ancestrali […] di cui ci si dovrà liberare elevandosi ad uno stadio superiore di maturità e consapevolezza») prendono forma attraverso alcuni semplici espedienti scenografici e di costume (gli alberi cartonati, le maschere, ecc.) e soprattutto grazie alle riuscite interpretazioni “sopra le righe” dei protagonisti. Lo spettacolo non soffre la contestualizzazione all’aperto, tutt’altro, e sembra avere dalla propria la capacità di attrarre nel racconto i giovanissimi spettatori, merito non da poco per un esito non scontato, la cui partecipazione è intelligentemente stimolata da alcune ingegnose trovate (es. la balbuzie del padre che “invita” il pubblico a completarne le frasi). Allo stesso tempo, se pure l’efficacia dell’allestimento sembra avere dei margini operativi dal punto di vista della gestione spettatoriale, che allo stato attuale risulta immatura tendendo a lasciarsi travolgere dall’eccitazione dei pubblico, quello che realmente perplime sono alcuni (s)punti strutturali: perché scegliere una fiaba tutt’altro che edificante come Pollicino, che possiede in sé alcuni aspetti critici dal punto di vista etico (una famiglia povera è giustificata se abbandona la prole? Solo il possesso materiale rende felici?) e perché Teatro Le Forche corrobora alcune pericolose stereotipie, come nel caso della palese associazione tra aspetto esteriore (brutto e grasso nel caso dell’orco), carattere (nel caso della capricciosa orchetta) e malvagità?
Gilgamesh, al Parco Lanera, «liberamente ispirato all’epopea di Gilgamesh, la più antica opera letteraria dell’umanità […] si propone di raccontare la realtà contemporanea attraverso gli archetipi sempre attuali del mito». Si tratta di un esperimento giovanilistico nel senso pieno del termine, traboccante di idee, di disordine creativo e di spunti eterogenei. L’allestimento si (de)struttura in «un gioco di contaminazioni tra linguaggio epico e musica elettronica, tra l’espressività dei corpi neutri e la voce campionata della murgia materana» in quanto, nell’idea di Matteo Camerini e Martina Santospirito l’abbondanza dei registri e l’ibridazione tra partiture visiva, coreografica e sonora dovrebbe far immergere gli spettatori «in uno spazio e un tempo indefiniti nei quali l’identità eroica si lascia dissolvere dalla differenza naturale». Lodevole dal punto di vista della volontà e dell’ambizione, dal momento che «la performance, scandita in tre tempi, tenta di problematizzare il rapporto di dominazione dell’eroe vittorioso nei confronti dei grandi rimossi dell’antropocene: la differenza (I), la natura (II) e la morte (III)», l’esito convince per dedizione, ma palesa sfumature di grigio nell’effettiva realizzazione. La goffa danza-lotta dei due protagonisti, i maldestri ammiccamenti erotici e la confusione sonora perplimono non poco, anche se, per l’età dei suoi ideatori/esecutori, alla compagine materana non può che andare l’invito di andare oltre l’esplicita ricchezza di spettacoli a cui – letteralmente – non manca nulla in termini di carne al fuoco e di accostarsi con maggiore preparazione e consapevolezza tecnica ai futuri progetti.
Chiude la nostra esperienza festivaliera Bozzoli, uno spettacolo di e con Silvia Torri e Rita Giacobazzi sostenuto e premiato da Risonanze, rete di tutela e valorizzazione per under30. Dal punto di vista tematico, il duo intreccia problematiche contemporanee («la pandemia, la perdita del lavoro e la scoperta del mercato sessuale di una ragazza sui trent’anni») e riflessioni di carattere più strutturale sulla condizione femminile («sui modi di vedere il lavoro e il proprio corpo»). Nulla di particolarmente originale, dunque, ma non per questo meno necessario per la coppia che inscena con straordinario pathos le vicende di una donna, la «sua avventura tra pregiudizi e piacevoli scoperte, tra minacce di outing e autonomia economica», l’immancabile incontro con il maniaco di turno e l’altrettanto immancabile struggente relazione familiare di turno.
Bozzoli, al contrario di Pollicino, paga pesantemente la collocazione outdoor e la distanza dal pubblico, in quanto l’allestimento gioca – dal punto di vista tecnico – tutte le proprie carte sulla prossimità empatica tra palco e platea che, però, non può “esplodere” nell’arena all’aperto, dove si perdono con troppa facilità i “sussurri” dei duo e sfugge la possibilità di giocare con le loro “miniature”. Ma i problemi sono ben altri per Bozzoli. Non si discute che traumi scolastici e disavventure infantili possano concorrere al disagio e alla deriva patologica della protagonista, ma la spiegazione psico-deterministica risulta grossolana, così come fin troppo netta e unilaterale risultano i riferimenti alle malelingue locali e allo stigma sociale, nonostante il momento degli “insulti muti” mossi in video sia stata una soluzione efficace. Stucchevole, poi, il refrain postmodernista della deresponsabilizzazione radicale: alla “domanda” di fondo espressa da Bozzoli, «tutte le nostre storie non sono un’invenzione?» (citiamo a memoria dal finale), la risposta è no, almeno non del tutto e non sempre. La realtà, lo scontro fisico con la sua “datità” e le lacerazioni che essa lascia sul corpo, nella mente e nell’anima non sono “solo” interpretazioni, ma “anche” fatti con cui ognuno di noi non può non fare i conti. Ribadire allo sfinimento che esistono solo opinioni è una semplificazione che purtroppo sembra far parte dell’immaginario comune, quando invece andrebbe riscoperta una relazione dialettica e “aperta” tra ciò che (ci) raccontiamo e ciò che viviamo. Se la coppia di interpreti paga una certa superficialità concettuale, va però riconosciuto che le idee non sembrano mancare, soprattutto per l’interessante l’uso del teatro di figura e dell’oggettistica ripresa dal vivo in una versione molto edulcorata e più improvvisata del modus operandi dei catalani di Agrupación Señor Serrano.
Impossibile lasciare Matera e Nessuno Resti Fuori senza ribadire la qualità di una proposta che non conta sui “grandi nomi” (che pure non mancano, a meno che per grandi non si intendano solamente i volti televisivi), che non teme di incontrare la delusione, non si esalta per le belle conferme e non si illude delle ottime sorprese. Quando si tratta di fare i conti con gli spettacoli selezionati, con lo svolgimento dei laboratori e il coinvolgimento delle istituzioni, le decisioni prese possono sempre essere riviste o rilanciate a patto che a muoverle siano state consapevolezza, motivazione e perseveranza. Accanto alla professionalità delle maestranze che si sono occupate dell’organizzazione e dell’ospitalità, va dunque dato cenno anche a chi ha deciso di scommettere sull’utopia del festival e ne costituisce il sangue nelle vene. Vale a dire a chi il quartiere lo vive, da Pink Blue Bar ai comitati locali e dai singoli docenti universitari agli studenti che, per esempio, hanno condotto la splendida e rivelatrice Passeggiata di quartiere.
Chapeau.